Antonella Capitanio
In occasione dei Rencontres Internationales de Genève del 1967 dedicati a “l’arte nella società Contemporanea”, Leymarie affermò provocatoriamente che di opere d’arte ne abbiamo abbastanza: “ne siamo saturi e più che saturi”.
Oggi, che anche il sistema-arte è stato inglobato nella modalità del consumismo, quella provocazione è diventata una verità che andrebbe gridata per non rischiare di soffocare in una melassa acritica in cui tutto è capolavoro e tutto è genio. Ma al tempo stesso sorprende chi, astraendosi da questo contesto, interpreta ancora il fare arte in maniera artigianale, quasi dimessa e certo appartata, realizzando “semplicemente” dipinti, in cui “tutto sia finto e paia vero”, senza farlo discendere da capziose idee esterne, senza evocare nient’altro che un’immagine virtuosisticamente fine a se stessa.
È il caso, tra gli altri, di Daniela Giovannetti. Le sue opere finite dissimulano infatti un lungo, meticoloso procedere: dalla preparazione della tavola-piallata, stuccata, levigata, alla costruzione compositiva nutrita di disegno e prospettiva, fino alla estenuata stesura del colore per velature. È proprio da questa passione tecnica che discendono, ad evidenza, i temi della sue opere: nature morte, su cui si deposita tutta la lentezza del tempo di esecuzione.
Antonella Capitanio, dal catalogo della mostra allo “Spazio Bocca in galleria” Milano, 2001
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